(Anteprima di: dalla 102 in poi: 36 storie per Comunicare) Di Daniela Marrocco Coach
IL LINGUAGGIO
DELL’ANIMA
Questa è una storia timida.
Una di quelle che iniziano a
voce rott..si, rotta. Le parole non si conoscono bene tra loro. Almeno, così
dicevano i dottori che Elia sentiva. Elia si.
Questo è il nome di una bambina
dal nome maschile, perché in quel posto strano, con le mattonelle tutte beige, le avevano dato
questo nome.
Codice lo chiamavano.
Codice lo chiamavano.
Elia aveva appena 8 anni.
Ricordava vagamente di avere
vissuto in un luogo con i prati verdi, l’odore di quel fiore – come si
chiamava - ah si, lavanda. Violetto
leggero nei mesi di Aprile. A p r i l e .
Lei lo pronunciava lettera per
lettera. Si diceva: faceva lo spelling.
Elia faceva lo spelling, anche se poi,
si chiedeva, cosa volesse dire fare lo
spelling quando un tempo è solo tempo in cui i fiori, quelli profumati, si
facevano strada nelle vie delle narici, prima nell’aria, poi nei polmoni.
Elia era un caso diverso. Lei parlava una lingua che doveva
pronunciare piano.
Doveva fare lo spelling. Pensava di parlare normale, di dire
le lettere come se queste si tenessero per mano. Ma così, ecco così non
era - così disse il dottore a sua madre.
Sarà stato per quella inusuale attività cerebrale – che
parola difficile ancora – che non sembrava essere consueta.
Così, i libri, le letture e tutte quelle immagini
impiastricciate a mo’ di segni sulle righe delle pagine le parevano davvero
comprensibili lettere. Lei le leggeva, ma dalla sua voce venivano fuori suoni
che non sembravano corrispondere alle attese.
Elia era diventata un caso.
Il dottore, sempre lui, diceva
che non era nemmeno dislessica. Non era una di quelle bambine che non sapeva
leggere e metter ordine nelle parole. LEI quelle parole le pronunciava
completamente diverse. Un linguaggio inventato, osava dire.
Tanto da forzarla
ad una educazione con quello S P E L L I N G
che sembrava sputare le lettere facendo perdere alle parole il loro
significato.
Lei, Elia, parlava piano. Diceva mamma, senza che mamma la
capisse. Ti voglio bene papà, lo diceva urlando, mentre suo padre alzava le sue
sopracciglia in un atto tra la frustrazione e la noia di un incompreso idioma.
Così giorno dopo giorno, aveva preso a singhiozzar parole,
ingoiarne altre, in quell’esercizio educativo che le aveva fatto perdere il
senso delle frasi. Inseguiva le lettere, le componeva in un puzzle, per
restituirle in bel pacchetto a chi gliele chiedeva. E ogni volta, sentiva, che
perdeva un pezzo del suo mondo.
Era diventata un caso, certo. Perché capiva. Autistica
avevano dichiarato.
Che poi, lei il suo mondo ben lo conosceva. Aveva preso a
vivere in quel posto con le mattonelle beige non appena il dottore - un altro - capì che l’autismo non c’entrava poi tanto.
Lei, Elia o come diavolo si chiamava davvero – non lo ricordava più tra uno
spelling e l’altro – continuava a cercare di tradurre le aspettative di chi le
chiedeva di comunicare in modo comprensibile.
Ma tutto era così complicato.
Qualche volta, si arrabbiava.
Masticava insieme le vocali e
le consonanti e le vomitava precipitosamente lungo la deriva di un colloquio al
termine, o di un esercizio estenuante.
Lei che aveva capito ogni cosa, non sapeva cosa le entrasse
in circolo a modificarle le sensazioni del vociare.
Non sapeva più se era A P R I L E …sapeva che però non c’era
l’odore della lavanda. Faceva caldo il giorno in cui arrivò in quella camera
dalle mattonelle beige un uomo dagli occhi di cielo.
Dottor Gabriel, comprese. Fece qualcosa di diverso dagli altri. Si fermò davanti a lei.
La guardò senza muovere le labbra. Prese una matita e scrisse: come ti chiami,
VERAMENTE?
Elia mosse verso il
dottore – quello nuovo - gli occhi. Era
alla sua altezza accovacciato come un bambino dagli occhi furbi. Come quelli
che fanno le marachelle, pensò. Era simpatico.
Lesse le parole: e disciplinatamente scrisse, ELIA.
Il dottore la guardò. Poi, delicatamente prese la matita e
sottolineò: VERAMENTE.
Elia sbattè le palpebre. Si fermò. Scosse dentro un fremito
e le gocce di lacrima presero a sciogliere la grafite della matita sul foglio.
Il dottore le porse la matita, poi ancora scrisse: chi sei
tu, VERAMENTE?
E LEI, ferma, prese dalle mani dalle dita ferme e pulite
quella matita. Poi scrisse: io.
Il dottor Gabriel aprì un sorriso e la guardò ancora,
pronunciando: io?
Io sono io? E così indicò se stesso…e poi lei.
E aggiunse a parole: io sono io, perché tu sei tu.
Ancora silenzio, poi la piccola prese le mani del dottore
con gli occhi di cielo, con le lacrime a rigarle le guance emaciate e disse piano ancora una
volta: io sono io, tu sei tu. Io, April.
Il dottore aspettò in silenzio, inspirò guadando in alto e
aggiunse: A P R I L …Lettera dopo lettera.
Lei ripetè..e sentì nel cuore una vibrazione, un moto, un
silenzio e poi ancora un tuono.
Gabriel richiese: chi sei tu VERAMENTE?
E LEI RISPOSE: io sono APRIL veramente.
Lui, la intese. E un giorno dopo l’altro fino all’aprile
seguente, APRIL apprese il linguaggio comune, mentre insegnava a Gabriel il
suo, che lo imparò. Senza mai svelarne il segreto.
Si narra che in quel mese, vicino alle coltivazioni di
lavanda, nacque così quello che chiamarono: il linguaggio dell’anima.